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Ornella Favero, una donna in carcere per allargare “Ristretti orizzonti”

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Ornella Favero ha una folta chioma di capelli rossi che bene ne rappresentano il carattere energico. E’ volontaria e direttrice di “Ristretti orizzonti”, giornale della Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca. «Il carcere ha allargato gli orizzonti della mia vita e della mia conoscenza, per questo credo che “Ristretti orizzonti” sia il nome giusto per questa esperienza». Una strada intrapresa casualmente: da un lato sua sorella (insegnante in carcere) la invita (poiché è giornalista) a tenere un ciclo d’incontri con i detenuti sull’informazione (sfociato in un ulteriore invito, da parte di un gruppo di detenuti, a parlare di carcere in modo diverso), dall’altro l’amicizia con Adriano Sofri l’aveva già portata a maturare un’attenzione sempre più alta verso questo mondo.

È il 1997 e Ornella ci prova, la lingua russa (di cui era insegnante e interprete) diventerà il suo passato, il carcere il suo futuro. «Lavorare in carcere è una sfida. Dico sempre che è un luogo senza qualità. La sfida è invece dimostrare che qui si possono fare anche cose di straordinario livello qualitativo», come dimostrano i convegni organizzati in questi anni le molte iniziative tra cui anche il seminario “Reati, persone, sicurezza sociale” per i giornalisti del Veneto che si terrà il prossimo 5 dicembre all’interno della Casa di reclusione di Padova.

E aggiunge: «Qui conosci davvero il male, cominci a farci i conti e a capire che a fare il male sono delle persone, delle persone. Cominci a fare i conti con il tuo lato oscuro e con quello di chi ti è vicino, e capisci quanto è complessa una realtà che invece si tende sempre a semplificare».

Alla semplificazione si risponde con la precisione delle parole, prioritaria per “Ristretti”, anche con gli studenti. Da alcuni anni il progetto “A scuola di libertà” (incontri sia a scuola che in carcere), non solo per gli studenti di Padova. «Bisogna avere il coraggio delle parole, dire “c’è scappato il morto” è l’espressione della deresponsabilizzazione. In redazione discutiamo molto dell’effetto che possono fare le parole e a mettersi sempre nei panni dell’altro: un familiare della persona uccisa non può sentirsi dire che “c’è scappato il morto”».

“Una parola su cui lavoriamo molto è ‘scivolamento’ – spiega Ornella – Quando i ragazzi a scuola ascoltano una storia di tossicodipendenza, si accorgono che si può arrivare a una dipendenza attraverso un lento scivolamento. Capire questo, significa rivedere completamente la propria idea di chi commette reati, vale a dire che non si tratta semplicemente di una persona che a un certo punto decide, ma a volte di una persona che scivola».

E alla voce libertà: «Ricordo un detenuto che una volta uscito ha abbracciato un albero oppure la riscoperta del mare oppure ancora la gioia di bere un caffè in una tazzina di ceramica. Non puoi apprezzare la libertà se non impari a riscoprire tutto. La testimonianza di chi sta in carcere ti fa fare anche questo». Riscoprire la libertà.

tovato su: Il Fatto Quotidiano

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